Il primo Novecento a Pinzolo

di Luciano Colombo

“Il primo Novecento a Pinzolo” di Luciano Colombo
Lo straordinario coraggio della nostra gente rivive nel libro “Il primo Novecento a Pinzolo” di Luciano Colombo.
L’opera narra le vicende di una comunità che negli anni più tragici della nostra Storia ha saputo vedere, con chiarezza, i veri valori della vita tanto da ritenere l’uomo più importante delle ideologie o dell’appartenenza a questa o quella fazione. Per i carabinieri, che condivisero le ansie ed i rischi di tutta una popolazione, si trattò di onorare un giuramento di fedeltà fatto al loro Re Imperatore. Pertanto, nella quotidianità di un Credo, contrastare i nazisti era il loro dovere.
Ma per quanto concerne la comunità di Pinzolo che aderì, pressoché unanime, ad un fraterno altruismo in favore di decine di militari Alleati fuggiti dai campi di concentramento, o paracadutati sul territorio, sicuramente il lettore rimarrà stupito per la loro abnegazione. Con i tedeschi alle porte e con sessantasei compaesani che militavano nelle file nazifasciste, si pensi cosa sarebbe accaduto se vi fosse stato un solo suggerimento malevolo. Ma sul greto del vicino, pur ciottolato da vecchi o nuovi rancori, la serpe della delazione fuggì da lusinghe e tentazioni. Nessuno tradì l’indiano Hayat Alì (nascosto per dieci mesi in un’abitazione), né il capitano Bernard Payne (ospitato in un rifugio alpino) oppure l’ufficiale inglese Peter Foden (inseguito dalla gestapo). Non uno violò la generosità di altre quattordici famiglie che celavano altrettanti fuggitivi. A fine guerra la popolazione di Pinzolo meritò il commosso riconoscimento degli Alleati.
Nel recensire “Il primo Novecento a Pinzolo”, il giornalista Franco de Battaglia precisava che…
Il merito di avere riportato alla luce, con ricerche (indagini) pazienti, riscoperta di documenti inediti, raccolta di testimonianze, spetta a Luciano Colombo, maresciallo dei Carabinieri a riposo, un protagonista della vita civile della Rendena nell’ultimo quarto di secolo. Il suo nome resta legato alla storica operazione che nel 1984 consentì, in piena segretezza e sicurezza, a Papa Giovanni Paolo Il di raggiungere le Lobbie, incontrarsi con il presidente Pertini e trovare il tempo anche di sciare. Gli vennero offerti 300 uomini per «cinturare» la zona. Egli ne volle solo dieci ritenendo che con 300 soldati sarebbe stato impossibile mantenere il segreto. E infatti la visita papale fu mantenuta nascosta fin tanto che – spiazzando tutti – proprio lo stesso Pertini l’annunciò alle agenzie.
Colombo, 69 anni ha ricostruito storie e personaggi quasi ormai dimenticati soprattutto dai giovani, su incarico del Comune di Pinzolo, consapevole di arricchire l’immagine di un paese che troppo spesso viene associato solo al turismo e che invece ha in sé un radicamento umano e territoriale fiero, profondo. Nel suo libro appena dato alle stampe, curato con respiro storico, ma anche con il gusto dei documenti diretti, dei riscontri sui verbali (chi ha fatto parte dell’Arma resta Carabiniere tutta la vita) Luciano Colombo non nasconde l’orgoglio per una comunità che seppe affrontare gli anni più tragici della storia italiana con dignità e lealtà.
La ricerca si impernia soprattutto su due personaggi, il dottor Tomaso Bruti, medico condotto durante la guerra, uomo di schiette passioni civili oltre che di alta professionalità (era stato compagno d’università di Degasperi e Battisti ad Innsbruck, durante i moti per l’Università italiana nel 1904, quando 138 studenti finirono in carcere) e il maresciallo Guerrino Richiardone, comandante della stazione carabinieri anche dopo l’8 Settembre, molto vicino al colonnello Michele de Finis, comandante dell’Arma a Trento, l’ufficiale – come ha scritto Piero Agostini – che letteralmente «salvò» il Trentino durante l’Alpenvolrand.
Il prigioniero Alì. Tomaso Bruti, fra le altre cose, riuscì a far nascondere un militare inglese (pakistano) fuggito (quattro volte) dai campi di prigionia. in Italia, Hayat Ali, in una casa di Giustino per quasi due anni. Il giovane figlio del dottor Tomaso, Pio, che poi divenne a sua volta medico condotto e al quale si devono molte testimonianze, portava aiuto e viveri al fuggiasco nascosto fingendo una simpatia sentimentale (o non smentendone le voci) con una delle figlie della famiglia di Giustino.

Prefazione
Tanti anni fa, quando il Creatore volle concentrare, in unico punto le rupestri bellezze dell’universo dal mare Tetide affiorarono le guglie del Brenta. Poi, nella genesi della terra, le acque defluirono ed imponenti piattaforme rocciose emersero dai fondali sino a toccare il cielo. Gli spruzzi dei flutti spumeggianti e fragorosi che si frangevano sulle scogliere, si estinsero e l’eco della risacca si smorzò in un profondo silenzio prealpino. Trascorsero milioni d’anni. La furia della natura, erodendo la dolomia, disegnò valli e plasmò altopiani. Poi, un tintinnio di gocce pluviali annunciò la nuova era. I rivoli d’acqua si trasformarono in rii. I rigagnoli divennero ruscelli, indi torrenti tumultuosi che ingrossarono i fiumi. Lungo le valli fiorì una nuova vita e verdeggianti piante dettero origine alle foreste ed alle praterie.
Le cime si ammantarono di neve e là dove, un tempo, i pesci si rincorrevano fra le stratificazioni dolomitiche, il camoscio iniziò a brucare l’erba e l’aquila volteggiò alla ricerca di cibo. Arrivò, infine, l’uomo, con tutte le sue contraddizioni ma anche come immagine di Dio.

Hayat Alì
E Don Giuseppe, puntuale come un orologio svizzero, dopo 48 ore ritornò a Pinzolo. Quando l’ultimo ammalato ebbe lasciato l’ambulatorio, Tomaso Bruti si affacciò sulla soglia del suo studio. «Su, entrate. Sì, anche lei signora Cozzini.» Il patriarca si sedette; accese il fornello della pipa e aspirando una boccata di fumo, fissò Don Giuseppe; poi prese parola. «Penso che lei non conosca la signora Luigia. Suo marito, Giovanni, è stato sorpreso dagli eventi bellici mentre arrotava coltelli negli Stati Uniti. Lei è madre di tre figlie, di nome Giacinta, Isoletta e Lucia, che l’aiutano a governare la stalla e gli animali del cortile. Lucia è pure maestra mentre Giacinta è abile nel cucito. La signora Luigia, che è consapevole dei gravissimi pericoli che corre, è disposta ad ospitare il fuggitivo. Per assicurare la necessaria presenza di un uomo, mio figlio farà settimanalmente quattro chiacchiere con l’indiano.

Per le vive spese di vitto e per quanto altro potrà avere bisogno, provvederò io.» Indi, rivolgendosi al prete, esclamò: «Ed ora si tolga dai piedi». Don Giuseppe Duchi tacque, essendo conscio che sotto quella ruvida scorza pulsava un cuore generoso ed altruista. Accompagnò, sino sull’uscio di casa, la signora Luigia e, strada facendo, si sincerò che mai si sarebbe fatto il suo nome. «Reverendo, sia tranquillo; io sarò solo una contadina, ma non per questo mancherò alla mia parola!» Salutato il sacerdote, Luigia Cozzini mise le figlie al corrente di una situazione che certamente avrebbe sconvolto la loro vita. Lucia, che i paesani avevano soprannominato “minestrina delle bagole”, si rivolse alla madre.
«Scusatemi se mi permetto la domanda. Perché date ospitalità ad uno sconosciuto?»
«Quando tuo padre emigrò per lavoro, gli americani non si posero quest’interrogativo.»
«Ma come faremo, con un estraneo per casa?»
«Vi comporterete come sono solite fare tutte le sorelle di questo mondo.»
Poi, da madre avveduta e dai modi sbrigativi, soggiunse: «Dopo giorni e notti di peripezie, sembra che il fuggitivo sia talmente sporco da emanare un effluvio nauseabondo; quindi, occorrerà che si dia una ripulita. Giacinta predisporrà, nell’angolo della stalla, una tinozza ed un pezzo di sapone. Inoltre curerà che per mezzanotte, quando don Giuseppe accompagnerà l’indiano, vi sia sufficiente acqua calda per il suo bagno. Lucia, che ha studiato, gli farà comprendere la necessità della sua pulizia. Se poi sarà indispensabile, io gli taglierò i capelli e lo striglierò con la liscivia. E tu, Isoletta, appronterai un letto nella stanza che dà sul rio.»
Nottetempo, Don Giuseppe ed Hayat Alì, lasciata la chiesa di Caderzone, risalirono il greto del fiume Sarca. Indi, camminando lungo il torrente Flanginech, raggiunsero l’abitato di Giustino sin dove, l’ultimo maso ed un ponticello, segnavano l’inizio della strada per Massimeno. Poi, non visti, bussarono alla porta di Giovanni Maganzini.
Dopo un salutare bagno, il militare si segregò nella camera che sarebbe divenuta, per oltre dieci mesi, la sua segreta dimora ma anche il fulcro di caritatevoli sentimenti. Egli ne uscirà solo per raggiungere la latrina pensile posta sul rio, e sempre con la cautela di non destare sospetti nei vicini. In quell’angusta stanza, dalle pareti di legno e dal soffitto fienoso, egli avrà, come compagno di clausura, un minuscolo ragno sempre proteso a tessere i sottilissimi fili della sua trama. Il lento fluire del tempo sarà scandito, in ogni istante, dal borboglio delle acque del vicino torrente. E saranno soprattutto questi suoni, ora acuti e squillanti, ora sordi ed ovattati, che accompagneranno, nell’alternarsi delle stagioni, la vita dell’indiano. Egli, vincendo il tedio del suo isolamento, ascolterà l’armonia delle mille e più voci donate dalla natura.
Era il 25 dicembre 1944. Una fioca luce illuminava la disadorna stanza dove il vento di Nardis, soffiando fra gli stipiti della finestra, suscitava, nell’animo di quel ragazzo, una struggente malinconia. Inoltre, il freddo invernale, proveniente dagli spifferi dello sconnesso assito, stava disegnando arabeschi di ghiaccio nel luogo in cui, come in uno specchio, si riflettevano i sogni e le speranze dell’islamico. Il piccolo asiatico, seguendo i suoi pensieri fermi sulla patria lontana, fissava l’infinito posto di là del vetro e del bosco vicino. I torrenti tumultuosi presero forma. Le nebbie si diradarono e l’aquila volteggiò in cerca di cibo. Vide, lassù, le leggendarie creste del Kashmir che sovrastavano il cielo. Udì, nelle scoscese valli dove prorompeva l’Indo, riecheggiare il ruggito del leopardo che sbranava la sua preda. Percepì, luci, colori e fragranze natie. Gli parve di essere nella sua casa, fra i suoi genitori.
Quando quella sera bussarono alla porta e gli fu offerto un dolce casereccio, Alì chiese: «Mamma Luigia, perché tu fare tutto questo per me?». «Figliolo, non lo so. Ma se hai fede nel tuo Dio, come io credo nel mio Signore, tu conosci già la risposta!»
Sì, anni dopo, nel tempo in cui scriverà, nel suo stentato italiano: «Dio è molto buono. Carissima mamma Luigia, sorella Lucia, fratello Pio», egli rimembrerà il francescano altruismo fiorito nel cuore delle nostre genti. S’inginocchiò, e pregò il suo Dio.

O Dio – mormorò – rendici saldi nella vita della rettitudine,
tienici lontano in questo mondo
da cose che ci obbligherebbero a pentirci
nel Giorno della Resurrezione,
alleggerisci il peso dei peccati,
facci vivere da giusti,
e allontana da noi il male dei malvagi.

Affranca dal Fuoco noi, i nostri padri,
le nostre madri, i nostri fratelli, le nostre sorelle,
con la Tua misericordia, o Potente,
o Perdonatore, o Generoso,
o Indulgente, o Sapiente,
o Onnipotente, Dio, Dio, Dio.

Hayat Alì rimase sempre se stesso. Accettò solo il cibo che le sue credenze tribali gli consentivano. Non volle mai mangiare carne perché l’animale, oppure il volatile, doveva morire per sua mano. Non essendo questo possibile, egli si cibò con latte, qualche crosta di formaggio e cantucci di polenta riscaldata. Né volle assaggiare insalate od altre verdure mangerecce. Ovviamente, quell’insolita alimentazione lo fece divenire terreo e macilento. Un giorno si ammalò. Un’appendicite acuta, gli procurò spasimi al ventre e lo fece urlare dal dolore. Pio Bruti, che a causa della guerra dovette interrompere gli studi di medicina intrapresi a Padova, si rese subito conto dell’impossibilità di lenire le sofferenze di Alì. Non solo mancavano i farmaci ma l’infiammazione cecale poteva degenerare in peritonite. Inoltre, un eventuale ricovero in ospedale era, in quelle condizioni e sotto il dominio nazista, irrealizzabile.
La sera seguente, Alì si aggravò. Luigia Cozzini, e così le figlie, si preoccuparono.

Giacinta andò a chiamare il figlio del dottore mentre Lucia, che non si dava pace, ricordò che il loro altruismo era stato elargito oltre l’inimmaginabile. Poco dopo, Pio Bruti, da quel realista che era, motivò le possibili prospettive sfavorevoli o addirittura funeste.
La discussione si fece animata. Tutti vollero esprimere la loro opinione e paventando la morte dell’indiano, il timore si tinse di angoscia e sgomento. Lucia: «Ma cosa faremo, con un cadavere in casa?» Un attonito, drammatico silenzio, calò nella stalla. Isoletta, seduta su uno sgabello, distolse lo sguardo dalla mungitura. Meccanicamente, la sua mano continuò a spremere la mammella dell’armenta e l’ultimo zampillo lattifero si smorzò, sordo, nel suo recipiente. Il tempo sembrò fermarsi. Il terrore di venire scoperti e di finire in un campo di concentramento, era palpabile. Se mai vi fu qualche velleità in merito, il recente arresto di Adamello Collini costituiva un tragico esempio dissuasivo. Isoletta, che non riusciva a trattenere le lacrime, con voce accorata espresse il suo stato d’animo: «Madre, vi prego, io non voglio morire!» Luigia Cozzini, cerea in volto, non rispose.
Poi, quell’intenso e sconvolgente senso di paura che montava nel loro intimo, eccitò la mente e predispose l’animo.

Non essendovi alternative, alcuni ritennero necessario sbarazzarsi di quell’impiccio, gettando l’indiano nel contiguo torrente. Seguirono attimi d’introspezione in cui, in vari modi ma con il medesimo fine, tutti si raffigurarono affaccendati a far ruzzolare lo straniero, giù per la china, sin dove scorrevano le limpide acque del rio. Al lume di un pallido lucignolo, un furtivo scrupolo di coscienza fece capolino nell’animo di Lucia. Un brivido di orrore ferì il suo spirito; poi sbottò: «ma questo è un omicidio!». Il fragoroso frangersi dell’onda emotiva sugli scogli dell’etico, determinò, nel lacerante turbinio dei loro pensieri, la consapevolezza di commettere un assassinio. Nonostante le motivazioni suggerite dall’esigenza di salvare la propria vita, nessuno se la sentì di perpetrare un’azione che avrebbe sicuramente spento un essere indifeso. Per ragioni imperscrutabili, che in circostanze così drammatiche seppero parlare ai cuori ed accendere le coscienze, avvenne l’impensabile. Lucia, Giacinta ed Isoletta si alternarono al capezzale dell’infermo. Per mitigare i suoi dolori, ma anche per attenuare le urla dei suoi lamenti, gli fecero mordere una cinghia di cuoio. Gli detersero il sudore che imperlava la fronte e che rigava il tremito di quelle guance incavate. Lo ripulirono dalla diarrea che colava fra i sussulti di un corpo indebolito e sofferente. Il calvario durò per più giorni. Poi, la parte dolente si sfiammò e ne seguì una lenta e stentata guarigione. Tuttavia, e per alcuni mesi, l’indiano rimase malaticcio e preda di risentimenti febbrili ed ascessi dentari. Fu necessario accompagnarlo, nottetempo, dal dentista Arturo Maganzini di Vadaione.
Nel frattempo, con l’arresto di Adamello Collini, i tedeschi accentuarono la loro vigilanza nella zona dei ghiacciai dove, la ditta Calderoni, stava eseguendo lavori di fortificazione. Ma anche a Pinzolo i nazisti rafforzarono il loro controllo istituendo, nella casa di Orazio Caola, un comando di gendarmeria. Poiché tutto il personale sanitario era impegnato sui vari fronti, i tedeschi militarizzarono Pio Bruti e lo trasferirono, quale infermiere, nell’eremo di Bedole dove trascorse tutto l’inverno 1944-1945. Nonostante ciò, il giovane universitario non mancò mai all’impegno, morale, assunto con la famiglia di Giovanni Maganzini. Egli continuò le sue fugaci visite pur sapendo che le comari lo indicavano innamorato di Lucia. Non era vero, ma questo servì a dare un significato alla sua presenza e, quindi, a sviare eventuali sospetti sull’asilo dato ad un soldato angloamericano.
I giorni trascorrevano nel timore di essere scoperti. Un mattino, arrivò l’invadente e temuto daziere per il controllo del latte. L’improvvisa apparizione di Massimo Matteotti sconvolse il lavoro di quelle pie donne, intente, com’erano, ad impastare una densa poltiglia realizzata con grasso animale e soda caustica. Quella mistura, che avrebbe dovuto produrre un detergente per bucato, non si sarebbe saponificata poiché le figlie di Luigia, in comprensibile agitazione, dimenticarono di aggiungere l’allume di rocca. Tuttavia, una di loro riuscì a segnalare ad Alì, mediante un richiamo convenuto, l’imminente pericolo. E l’indiano, usando un infantile accorgimento, andò a nascondersi dietro le ante di un armadio.
Il 25 marzo 1945 due caccia “Alleati” scesero, come famelici rapaci, sull’abitato di Giustino, distruggendo case e seminando il terrore. Il maso di Giovanni Maganzini prese fuoco e costrinse i suoi abitanti ad uscire allo scoperto. Hayat Alì, frettolosamente vestitosi da donna ed invitato a fuggire nel bosco, non poté passare inosservato. In Giustino, tutti seppero del soldato alleato. I valligiani, seppellendo rancori, invidie e gli immancabili asti di vicinato, non tradirono il segreto di Luigia Cozzini e delle sue figlie. Anzi, alcuni di loro si adoprarono affinché Hayat Alì trovasse sistemazione nell’eremo di S. Giovanni, dominante la Valle Rendena. Intanto, fra le macerie fumanti dove aleggiava l’olezzo di carni bruciate, Luigia Cozzini cercava di salvare il salvabile. Non era donna da piangere sui quei miseri resti, dovuti ad un destino, crudele ed ingrato. Giorni dopo, mentre i tedeschi, in ritirata, risalivano la Valle, la famiglia Maganzini trovò provvisoria sistemazione nella casa posta di fianco alla chiesa di Santa Lucia. Grazie all’interessamento di Don Giuseppe Tranquillini, parroco di Carisolo, Alì lasciò il suo eremo e trovò ospitalità nella famiglia di Tranquillo Maestri.
L’immane tragedia stava per concludersi. Hayat Alì indossò la sua divisa; un’uniforme che Giacinta aveva ripulito e rammendato con ogni cura. Indi, impettito e con passo marziale, discese la strada per Pinzolo dove si presentò ai Carabinieri.
Hayat Alì, dopo essere rientrato nel suo Kashmir, non scordò i giorni trascorsi in Trentino. Egli scrisse, a Pio Bruti, decine di lettere in cui, spesso, si rammaricava di non ricevere risposta. Nelle sue missive, vergate con infantile tenerezza, egli esprimerà un affetto fraterno per l’aiuto ricevuto. E ricorderà, fra gli altri, il parroco Parisi ed i reali carabinieri. Nell’anno 1976 ritornò in Valle Rendena, ospite di Pio Bruti.

da “Il Primo Novecento a Pinzolo” di Luciano Colombo – Collana “Persone ed avvenimenti” del Comune di Pinzolo 2004

Il primo Novecento a Pinzolo

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