Storia trentina

L’emigrazione trentina

L’emigrazione è stata, per molti anni, un triste fenomeno che ha colpito il Trentino, come molte altre regioni del nostro Paese.
La povertà quando non la miseria e la fame, spinsero intere famiglie ad abbandonare il paese di origine per trovare nuove condizioni di vita e di lavoro.
La ricerca di un posto di lavoro, di un reddito più garantito, di una nuova patria con il miraggio di “fare soldi”, di diventare ricchi e magari poter tornare a vivere nel proprio paese, furono le cause che indussero migliaia di persone a lasciare il Trentino per nuovi paesi. Il fenomeno ha origini antiche nella nostra provincia ed è durato per moltissimi anni. Solo negli ultimi anni si è invertito il flusso migratorio con il rientro di molti emigranti e l’arrivo di lavoratori dai paesi del Nord Africa e dell’Europa dell’Est.
L’ondata migratoria ebbe inizio nei primi anni del secolo scorso quando l’avanzare della nuova economia di mercato, l’espandersi di un nuovo tipo di produzione: quello capitalistico-industriale, mise in crisi il vecchio sistema feudale.
Le comunità rurali, che per secoli erano vissute chiuse nel loro isolamento con l’economia basata soprattutto sull’autoconsumo, si trovarono impreparate ad affrontare le nuove condizioni di vita e di lavoro. L’insufficienza dei mezzi di sussistenza, dovuti alla crisi agricola e al frazionamento delle proprietà, la mancanza di lavoro, l’esiguità dei redditi, portarono migliaia di persone a scegliere la strada dell’emigrazione.
All’inizio il fenomeno era di tipo prevalentemente stagionale: con l’avvicinarsi dell’inverno, terminati i lavori dei campi, i contadini abbandonavano i propri paesi per cercar lavoro come taglialegna, tagliapietra, spazzacamini, segantini, muratori, arrotini, ecc. nel vicino Regno d’Italia o nel Nord Europa.
Questo tipo di emigrazione coinvolgeva soprattutto i maschi e durava fino alla primavera successiva quando, con la ripresa dei lavori agricoli, gli emigranti tornavano in paese portando i guadagni della stagione.
E’ solo però a partire dalla seconda metà del secolo scorso che l’emigrazione acquista le caratteristiche di massa, anche come emigrazione definitiva e non più stagionale, oltre Oceano, in particolare nelle Americhe.
Il fenomeno emigratorio continuerà ininterrotto fino agli anni della prima guerra mondiale e della ricostruzione (1915-1920) duranti i quali praticamente si arresterà, per poi riprendere negli anni immediatamente successivi.
La politica restrittiva nei confronti dell’emigrazione, attuata dagli Stati Uniti, negli anni a partire dal 1924 e dal regime fascista, diminuirà l’emigrazione senza però annullarla.
Gli anni del fascismo porteranno a un nuovo tipo di emigrazione, verso le Colonie africane o per il recupero delle zone paludose dell’Agro Pontino. Durante la seconda guerra mondiale il fenomeno emigratorio si arresterà nuovamente per riprendere vigore nel secondo dopoguerra.
Don Lorenzo Guetti, fondatore della cooperazione trentina, fu uno dei primi studiosi del fenomeno migratorio, che svuotava i paesi delle forze migliori e divideva gli affetti e le famiglie. Per studiare il fenomeno diffuse un questionario molto preciso e, con l’aiuto dei parroci e delle autorità comunali, pubblicò nel 1888 una “Statistica dell’emigrazione americana avvenuta nel Trentino dal 1870 in poi – compilata da un curato di campagna”.
Questa statistica riportata molto dettagliatamente in specchietti relativi ai 25 decanati del Trentino e all’interno di essi, paese per paese, mostra il quadro dell’emigrazione in rapporto alla popolazione e suddivisa fra uomini (ammogliati e celibi), donne (maritate e nubili) emigrati in America (del Sud o del Nord) con esito (buono, cattivo, incerto o ignoto) e, infine, il numero dei morti e dei rimpatriati.
Dal quadro riassuntivo si deduce che su una popolazione totale di 404.225 abitanti, dal 1870 al 1888, emigrarono in America ben 23.846 persone, il 5,9% di tutta la popolazione trentina, percentuale elevatissima se si considera che questo era solo una parte di emigrazione. Di questi il 70% uomini, il resto donne. In America del Sud si ebbe la maggior parte dell’emigrazione (77%). Essa ebbe esito buono per il 58,9%, cattivo per il 6,9%, ignoto per il 34,1%. I rimpatriati furono l’8% circa, e i morti il 4,2%.
Da questi dati si comprende come il fenomeno dell’emigrazione fosse drammatico. Di buona parte di persone emigrate non si avevano più notizie, mentre non pochi erano anche i rientri e coloro che riemigravano per due e anche tre volte.
L’emigrazione ebbe però anche i suoi aspetti positivi e questi non furono solo economici, ma soprattutto sociali e culturali. Accanto ai sacrifici e alle difficoltà nell’affrontare realtà diverse, c’era il fatto di conoscere culture e popoli nuovi, la speranza e l’entusiasmo con i quali si cercava di ricostruire una nuova vita. Accanto ai guadagni l’emigrante acquisiva così un patrimonio di nuove conoscenze che egli trasmetteva alla patria di origine insieme alle proprie rimesse. Don Guetti ricorda come uno stimolo alla fondazione della prima cooperativa gli fu dato proprio dagli emigranti.

da “Le stagioni della solidarietà” – L. Imperadori – M. Neri

La crisi agricola della seconda metà dell’Ottocento

Una spaventosa crisi si abbatté sulle campagne trentine nella seconda metà del secolo scorso. A quei tempi l’economia trentina era prevalentemente agricola e assorbiva la stragrande maggioranza della popolazione attiva. Anche molte attività industriali, come quelle della seta, erano legate all’agricoltura che era il perno di tutta l’economia.
Le cause più profonde della crisi che scosse il Trentino a partire dalla metà del secolo scorso, vanno ricercate principalmente nel passaggio da un’economia agricola, a bassa produttività, basata sull’autoconsumo, ad un’economia più aperta, di mercato, dove la stessa attività agricola doveva essere orientata verso una maggiore produttività. Il contadino, che prima produceva solo ciò che era necessario al consumo proprio, dovette imparare a produrre anche per vendere.
Questo passaggio tra il sistema feudale e il sistema moderno di tipo industriale-capitalistico, fu la causa di una profonda lacerazione del tessuto sociale e del tessuto economico delle comunità rurali trentine. Fin dai tempi antichi, infatti, le comunità rurali di paese avevano ampie estensioni di terreno, boschi e pascoli, in genere situati in montagna, che potevano essere utilizzati collettivamente. Cioè l’utilizzo di queste proprietà era possibile per tutti gli abitanti originari del villaggio, ma era disciplinata da “regole” e norme ben precise a cui ciascuno doveva attenersi.
Il modesto reddito dell’attività agricola familiare, che, in genere, si basava su piccole proprietà, veniva così integrato dalla possibilità di utilizzare collettivamente i boschi e i pascoli di montagna. Attorno al singolo individuo esistevano legami e meccanismi di solidarietà sociale che, se non procuravano certo ricchezza, per lo meno garantivano la sopravvivenza, anche se a prezzo di sacrifici durissimi.
La caduta del mondo feudale, che nel Trentino avvenne molto più tardi, rispetto ad altre regioni europee, trovò il contadino completamente impreparato ed indifeso ad affrontare la nuova situazione.
L’apertura delle comunità rurali verso un’economia di mercato, dove si doveva produrre anche per vendere e non solo per consumare, e dove si acquistavano i manufatti, vestiti, scarpe, ecc. provenienti dalle industrie delle città anziché tesserli o costruirli artigianalmente, sconvolse la vita economica e sociale dei villaggi.
L’arretratezza del sistema agricolo, il carattere tipicamente promiscuo delle coltivazioni prive di specializzazione e razionalizzazione, la frantumazione delle proprietà non permettevano più di ricavare dalla terra nemmeno il minimo vitale per tutti. Il venir meno inoltre di molti dei vincoli di solidarietà sociale e dei diritti collettivi del passato, posero i singoli e le famiglie di fronte alla dura necessità di emigrare per trovare una fonte di lavoro e di guadagno.
Accanto a tutto ciò, come se non bastasse, gravi calamità naturali colpirono l’agricoltura trentina.
Due disastrose alluvioni, l’una nel 1882, l’altra a distanza di pochissimi anni, nel 1885, si abbatterono su paesi, case, campagne. L’acqua ruppe gli argini, provocò frane, erose terreni, distrusse coltivazioni e stroncò anche molte vite umane.
Nello stesso periodo si diffusero attraverso l’importazione di piante americane, malattie delle piante, fino allora sconosciute: la peronospora, la fillossera, l’oidio, l’acaro, ecc. distrussero la produzione di intere annate agricole colpendo le patate, l’uva, la frutta. Di fronte ad esse il contadino non sapeva come comportarsi e spesso per diffidenza rifiutava certi trattamenti chimici e certe necessarie innovazioni.
Anche il bestiame venne colpito dall’afta epizootica che è una malattia molto contagiosa che azzoppa gli animali. Alla già drammatica situazione si aggiunsero la crisi e le malattie del baco da seta, una delle principali fonti di reddito del contadino trentino.
Infine la perdita dal parte dell’Impero austroungarico del Lombardo-Veneto (1859 -1866), il Trentino si trovò a passare repentinamente da territorio centrale della parte sud occidentale dell’impero a territorio di confine. La chiusura degli sbocchi commerciali verso Sud provocò notevoli disagi per le popolazioni della Vallagarina, della Valsugana e delle Valli Giudicarie che fino allora avevano avuto ottimi scambi commerciali con le vicine popolazioni bresciane e venete. In particolare ci fu un rincaro dei prezzi soprattutto dei cereali di cui la provincia era fortemente deficitaria. Anche il cambiamento di alcune direttrici di traffico verso il fondo valle, ad esempio la costruzione della ferrovia del Brennero (1866), isolarono i territori di montagna dove prima passavano le vie di comunicazione attraverso i passi e portarono ad un abbassamento altimetrico della popolazione.
Per far fronte a questa situazione di crisi e di emigrazione e di disgregazione sociale, nacquero le prime forme di unione, di solidarietà e di associazionismo. A partire dal 1890 nascerà la cooperazione trentina che avrà parte non certo secondaria per far uscire il Trentino dalla crisi e per consolidare lo sviluppo agricolo e industriale.

da “Le stagioni della solidarietà” – L. Imperadori – M. Neri

Il baco da seta in Trentino

Il baco da seta o filugello come più propriamente si chiama, o “cavaler” nella forma dialettale, è la larva di un insetto che produce il filo di seta avvolgendoselo attorno in piccoli bozzoli, dai quali poi viene dipanato e, successivamente, tessuto nelle industrie della seta. Il baco da seta si ciba di foglie di gelso.
L’allevamento del baco da seta è stato una fra le principali attività agricole del Trentino. Basti pensare che, nel secolo scorso, essa veniva esercitata nella stragrande maggioranza dei comuni rurali della provincia.
La storia
L’allevamento del baco da seta, in forma razionale, ebbe inizio, nel Trentino, all’incirca al principio del secolo scorso e si protrasse per quasi centocinquant’anni. L’attività fu abbandonata solo in anni recenti quando, sia la concorrenza delle sete asiatiche, sia soprattutto il diffondersi delle fibre artificiali, hanno reso non più remunerativa tale produzione.
L’attività di allevamento del baco da seta ha origini antichissime. Essa si riscontra in Cina già nel duemila avanti Cristo, ma si diffuse in Occidente solo molto più tardi.
I cinesi erano molto gelosi dei segreti di questa coltura e sembra che punissero addirittura con la morte che ne avesse tentato l’esportazione.
La leggenda dice che una principessa cinese, che andò in moglie ad un re straniero, nascose uova di baco nei capelli e le portò alla nuova dimora.
Il baco da seta si diffuse dalla Cina alla Corea e da questa al Giappone per essere poi portato nel Medio Oriente dove due monaci, nel 582, lo donarono all’imperatore Giustiniano di Costantinopoli. Da qui gli arabi lo portarono nella Spagna durante la loro opera di colonizzazione del Mediterraneo e, intorno all’anno mille e cento, esso giunse in Italia attraverso la Sicilia. Così che, attorno al 1500, esso venne introdotto in Valle Lagarina, allora territorio soggetto alla Serenissima Repubblica di Venezia.
Dalla Valle Lagarina, questa preziosa industria si propagò, a poco a poco, in tutto il Trentino: dalle Giudicarie, alla Val di Non, alla Valsugana, alla Valle dell’Avisio e infine, nel 1869, anche nel Primiero. Il clima del Trentino era ben adatto alla coltivazione del gelso e quindi l’allevamento del baco, che fu promosso dal governo austriaco.
La prima metà del 1800 fu l’epoca d’oro della bachicoltura trentina. Essa in pochi anni sopravanzò tutte le altre produzioni agricole. Furono piantati gelsi anche nelle valli più remote, occupando piano e colline; gli stessi alberi fruttiferi e perfino i vigneti dovettero cedere il posto a questo nuovo albero.
Accanto all’attività di allevamento del baco sorsero le industrie della seta. Attorno alla metà del secolo scorso, si contavano, infatti, a Rovereto e dintorni, ben quaranta filatoi che davano lavoro a oltre quattromila persone con una produzione che si aggirava sui 100 mila kg di sete rinomate in tutta Europa.
Al periodo di splendore della bachicoltura trentina subentrò, nella seconda metà del secolo scorso, una crisi profondissima. Le cause di questa crisi sono da ricercarsi in particolare nella concorrenza delle sete asiatiche, soprattutto dopo l’apertura dell’istmo di Suez (1869) che favorì enormemente l’importazione di prodotti serici dall’Oriente, nella diffusione di malattie che colpivano il filugello e, infine, nella perdita da parte dell’Impero austroungarico prima della Lombardia (1859) e poi del Veneto (1866) che fecero del Trentino territorio di confine con la conseguente chiusura dei mercati verso l’Italia.
Per far fronte a questa crisi, i produttori agricoli si riunirono in società e comitati appositi (Società agraria di Rovereto 1868, Consorzio Agrario Tridentino 1870). Scopo di queste associazioni era quello di difendere la coltivazione del gelso, di razionalizzare l’allevamento dei bachi, istruendo i contadini sulle nuove tecniche colturali e fornendo loro “il buon seme confezionato con tutta coscienza”.
Uno dei problemi più gravi da affrontare era infatti la produzione del seme. Questo spesso veniva venduto nelle campagne, da commercianti di poche scrupoli, già infetto o non sufficientemente selezionato, in rapporto alla crescita successiva.
Con sottoscrizioni fra i produttori il Comitato seme-bachi, organizzò diverse spedizioni in Medio Oriente e in Oriente, con a capo l’infaticabile don Giuseppe Grazioli, di Lavis, che avevano il compito di procurarsi seme esente da infezione, da distribuire sotto il controllo pubblico. Il successo delle spedizioni riaccese la speranza dei contadini trentini, anche se il bozzolo giapponese (verde) era qualitativamente inferiore al bozzolo indigeno (giallo). L’introduzione della selezione del seme-bachi per mezzo del microscopio, attorno al 1870, contribuì notevolmente a dare prodotto privo di infezione e a rendere i produttori trentini indipendenti dall’estero.
Nell’opera di difesa e di rilancio della bachicoltura trentina si distinse in particolare l’Istituto Bacologico (1883) emanazione dei precedenti comitati seme-bachi e la cui gestione fu affidata al Consiglio provinciale dell’Agricoltura.
L’importanza dell’allevamento del baco da seta nei primi anni del Novecento, per un paese montano e povero come il Trentino, si può ricavare anche da alcune cifre: la produzione normale di bozzoli era di 1.800.000 kg e al prezzo medio di corone 3.284 kg, essa dava un ricavo annuo, medio, di circa 6 milioni di corone.
L’allevamento
L’allevamento del baco da seta non è cosa facile: esso implica una serie di conoscenze e di attenzioni, prima nella fase di selezione del seme e poi in quella dell’incubazione e dell’allevamento.
I locali dove si fa l’allevamento devono essere ampi, ben arieggiati e asciutti, lontani da stalle e letami. E’ infatti assolutamente necessario una scrupolosa pulizia perché la maggior parte delle malattie dei bachi, ad esempio la pebrina, deriva da germi rimasti nelle attrezzature o portati dall’aria.
Ma la caratteristica principale dell’allevamento del baco da seta è l’equilibrio costante che, in questa attività, si deve mantenere in rapporto con la natura; equilibrio che deve tener conto dello spazio necessario alla crescita, del tempo più opportuno per l’incubazione, della quantità di gelso a disposizione, della temperatura e dell’andamento stagionale.
L’incubazione del seme bachi va iniziata nella primavera, a seconda di quando si prevede possano essere disponibili le prime foglie di gelso, in genere verso la metà di aprile. Il seme comincia a svilupparsi a calore superiore ai 10° C e in seguito la temperatura deve essere progressivamente aumentata e costantemente controllata sino a raggiungere il massimo di 22° C circa.
Per questo il luogo preferito per l’allevamento, nel passato, erano appunto le cucine dei contadini o ampi stanzoni ben asciutti. Questa attività era prevalentemente affidata alle donne. Esse, infatti, vivevano prevalentemente in casa, e anche perché spesso la maggior parte degli uomini erano emigrati.
La durata del periodo larvale del baco da seta è di circa 30 giorni. Le larve hanno all’inizio due o tre millimetri di lunghezza e crescono fino a sette-dieci centimetri, aumentando di circa ottomila volte il loro peso. Durante lo sviluppo devono cambiare ben quattro volte la pelle, che altrimenti non potrebbe distendersi seguendo l’enorme accrescimento del corpo: e tale operazione si chiama “muta”. Il rapporto baco e spazio è quindi estremamente importante perché durante l’allevamento i bachi hanno bisogno di respirare, di muoversi e di nutrirsi liberamente e abbondantemente. Un’oncia di semi di bachi (circa 30 grammi) ha bisogno, nelle cinque età del baco, di una graduazione progressiva dell’aumento di spazio: 4, 8, 16, 32, 64 metri quadrati. Per nutrire i bachi di un’oncia di seme si richiede ben una tonnellata di foglie di gelso.
Conclusioni
L’allevamento del baco, pur essendo di breve durata, comporta un’attenzione e una cura assidua e soprattutto, come si è detto, un preciso equilibrio con la natura se non si vuol compromettere la produzione. L’allevamento dei bachi trovava quindi limiti precisi di spazio e di quantità di foglie di gelso da dare in pasto ad essi e ben lo sapevano i contadini quando in certe annate la foglia del gelso rea pagata a peso d’oro.
Il ricordare un’attività come quella dell’allevamento del baco da seta, ora estinta, non è solo la soddisfazione di una curiosità storica, ma vuole essere un preciso richiamo, soprattutto ai giovani. questi ultimi, anche se non hanno mai potuto vedere un baco da seta, sono certamente sensibili alla necessità di mantenere un corretto rapporto uomo-natura, equilibrando la produzione e quindi i redditi, in funzione delle risorse disponibili e rinnovabili.

da “Le stagioni della solidarietà” – L. Imperadori – M. Neri