Storie di Migranti – Intervista al Nonno Filippo Maturi – 1^ Parte

Intervista al Nonno Maturi Filippo dei nipoti Filippo e Alessandro Mosca – PRIMA PARTE

Concorso individuale “Storie di Migranti”
di Mosca Filippo Classe Prima Media Pinzolo e Mosca Alessandro Classe Quarta Elementare Pinzolo
Istituto Comprensivo Val Rendena

Com’era la vita di un bambino a Pinzolo negli anni ’40?

In quegli anni a Pinzolo c’era una gran povertà perché erano anni di guerra e di tempi molto duri per tutti.
Gli uomini erano al fronte e le donne, i vecchi ed i bambini erano rimasti nei loro paesi e la loro vita era al limite della sopravvivenza.
Non c’era quasi niente da mangiare, ogni famiglia aveva una tessera che fissava quanta farina spettava a ciascuno e poi ci si arrangiava con qualche prodotto dell’orto, con qualche uovo, e con i frutti che si trovavano sulle poche piante che c’erano nei dintorni.
Io ricordo che nella mia famiglia si mangiava una volta al giorno, che avevo sempre fame e che una delle mie sorelle era incaricata a fare la guardia alla credenza perché nessuno di noi fratelli cercasse di mangiare di nascosto quel poco che serviva per la cena di tutti.
Le condizioni di vita, al limite della sopravvivenza, migliorarono un po’ dopo la fine della guerra.
Durante l’inverno avevamo sempre freddo perché a quei tempi non c’erano impianti di riscaldamento e noi avevamo solo una stufa in cucina, non c’era acqua corrente e neanche il bagno in casa.
Ci lavavamo una volta alla settimana in una grande tinozza in cucina e mia mamma o le mie sorelle andavano a lavare la biancheria al lavatoio pubblico insieme alle loro amiche.
D’inverno dormivamo tutti vicini nello stesso letto per non sentire il freddo.
Insomma erano tempi durissimi e in più a causa della cattiva alimentazione, del freddo, della scarsa igiene e dell’assenza di medicine ci si ammalava spesso di malattie che oggi vengono prevenute con i vaccini o curate con gli antibiotici, ma che in quei tempi facevano morire le persone più deboli.
Anche un mio fratellino è morto di polmonite.
A scuola ci andavamo volentieri, anche se gli insegnanti erano molto severi, perché era uno dei pochi posti dove potevamo imparare cose nuove e leggere i libri.
Allora non esistevano edicole con giornalini, biblioteche, computer o tv e per la scuola ed i maestri tutti avevano un grande rispetto.
Ogni alunno aveva due o tre quaderni e gli dovevano bastare per tutto l’anno scolastico; per scrivere si usava il pennino con l’inchiostro, bisognava avere cura delle poche cose che si possedevano perché erano molto preziose.
Quando avevamo tempo libero portavamo le capre nei boschi o le mucche al pascolo, falciavamo il fieno, ci arrampicavamo sugli alberi o correvamo nei prati rincorrendo gli insetti o qualche animaletto, giocavamo a nascondino o a rincorrerci nelle corti delle case e d’inverno restavamo al caldo nelle stalle ad ascoltare le “fole” delle donne che facevano “filò” oppure ci improvvisavamo attori e facevamo il teatrino.
Per le strade non c’erano macchine ma solo carretti e qualche bicicletta e noi non eravamo mai in pericolo quando giocavamo per il paese!

Quando e perché sei andato via da Pinzolo per la prima volta?

La prima volta che sono andato via da Pinzolo è stato nel 1945 dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Sono andato a Trento per frequentare la prima media perche’ a quei tempi a Pinzolo c’era solo la scuola elementare.
Inizialmente alloggiavo in una casa che era stata bombardata durante la guerra e quando pioveva entrava l’acqua perché mancava una parte del tetto e poi sono andato in un convitto dei Bertoniani.
Lo stabile della scuola invece era un ex casa del fascio appena sgomberata dai partigiani.
Durante questo periodo sono tornato a casa solo due volte, a Natale e a Pasqua, perché i trasporti erano molto lenti o costosi.
Ero molto contento di avere la possibilità di studiare ma mi sentivo molto solo.
Ricordo che durante la primavera giocavo a biglie sotto i portici di Via Suffragio dove adesso ci sono molti bei negozi e a volte quando vado a Trento mi piace passeggiare lungo quella strada e andare con la mente a ritrovare i ricordi lontani.

Quante altre volte sei stato costretto ad emigrare?
Che lavoro facevi quando rimanevi a Pinzolo?

Dopo quell’anno trascorso a Trento sono dovuto andare a lavorare perché a casa i soldi che guadagnava mio papà facendo il boscaiolo e mia mamma facendo la sarta non bastavano a sfamare la famiglia e a far studiare mio fratello maggiore.
A quei tempi, se la famiglia se lo poteva permettere, mandava a studiare almeno il primogenito.
Così a 14 anni partii con un mio coetaneo che si chiamava Bruno Ferrari e insieme andammo a Roma.
Lavoravo come tuttofare in un albergo gestito dalle suore.
Alla mattina dovevo fare il chierichetto, poi durante il giorno facevo il lavapiatti ed il facchino e sbrigate queste mansioni se avanzava del tempo mi occupavo anche dell’orto.
In cambio del mio lavoro ricevevo vitto e alloggio ed una piccola somma di denaro che spedivo a casa tramite vaglia postale.
Di tanto in tanto avevo qualche ora libera e con una bicicletta andavo a trovare il mio amico Bruno.
Parlavamo di tutte le cose e delle persone che avevamo lasciato al paese e soprattutto parlavamo dei nostri sogni e dei nostri progetti e di tutte le cose che avremmo voluto fare da grandi.
Dopo due anni tornai a Pinzolo, e ci restai fino ai 18 anni.
In questo periodo trovai lavoro presso l’impresa che stava costruendo la galleria che avrebbe convogliato l’acqua del fiume Arno’ da Breguzzo alla Val di Genova, e poi a Molveno, dove sarebbe stata utilizzata per far funzionare una nuova centrale idroelettrica.
Tutti i giorni andavo in bicicletta a Caderzone dove si trovava il cantiere dei minatori.
I minatori erano tutti emigranti e provenivano dalla Calabria, dal Veneto e dalla Val di Sole.
Io ero un operaio lavoravo nell’officina del fabbro ed ero addetto alla manutenzione delle pompe in galleria.
Le gallerie venivano scavate con delle perforatrici ed era un lavoro molto pericoloso perché a volte la roccia franava ed i minatori rischiavano la vita.
Dopo l’esperienza in galleria, trovai lavoro come commesso presso la Famiglia Cooperativa di Pinzolo.
Qui restai a lavorare per circa sette anni ma in alcuni periodi dell’anno lasciavo il lavoro di commesso, e andavo in altre città del nord Italia, per imparare l’arte del salumiere e del macellaio.
In questo periodo ho fatto anche il servizio militare che a quei tempi durava 18 mesi.
Fui arruolato nel corpo degli Alpini, la Tridentina Battaglione Trento, e di stanza a Brunico.


Classe 1934 – Partenza per la visita militare (Pinzolo 1952)

Cosa pensavi quando vedevi i “Merican” nel tuo Paese o quando ne sentivi parlare dai tuoi paesani o parenti?

Dopo la fine della guerra furono riaperte le frontiere e molti dei nostri paesani che erano emigrati all’estero negli anni precedenti cominciarono a tornare in valle per ricongiungersi ai familiari, per trovare una moglie da portare con loro o per visitare le loro terre di origine ed i loro parenti.
Erano ben vestiti e “tudorii a duer” e spesso arrivavano con macchine di lusso.
Raccontavano cose che ci lasciavano incantati e soprattutto noi ragazzi e ragazze fantasticavamo su quel mondo ricco di possibilità e di speranze per un futuro migliore.

Quando e perché hai deciso di andare in America?

Le difficili condizioni economiche della nostra famiglia, e la grave malattia che colpì nostra mamma peggiorarono la situazione, riuscivamo a malapena pagare le spese mediche per le sue cure e facevamo la spesa a credito.
Il dolore per la morte di mia mamma e la mancanza di opportunità per migliorare le nostre condizioni, fecero maturare in me il pensiero che dovevo prendere una decisione drastica.
Così cominciai a pensare che l’unica soluzione era andare via: dovevo andare in “Merica”.

Come hai fatto ad avere il permesso di lavoro e quanti soldi ti è costato?

A quei tempi non era facile riuscire ad avere il permesso di lavoro per andare negli Stati Uniti perché c’erano delle quote di ingresso riservate solo ad alcune categorie di lavoratori e soprattutto erano riservate ad operai provenienti da alcuni paesi e gli italiani purtroppo si erano creati una brutta reputazione e spesso all’estero non erano benvisti.
Per riuscire ad avere il contratto di lavoro, necessario ad ottenere il permesso di lavoro, mi feci prestare dai parenti che già vivevano negli Stati Uniti un importo pari a tre anni di salario con la promessa di restituirli con i futuri guadagni.
Inoltre in quel periodo era obbligatorio effettuare una visita medica ed un esame attitudinale, così mi recai a Genova presso il Consolato e riuscii a superare entrambi gli esami.


Ricevute dei versamenti per il rilascio del passaporto

Cosa pensavano i tuoi familiari ed i tuoi amici a proposito della tua decisione di emigrare?

I miei familiari ed i miei amici erano contenti per me perché in quegli anni non era da tutti avere il coraggio di partire ed inoltre era difficile avere i permessi. Eravamo tutti emozionati e speranzosi.
Ricordo proprio questo sentimento: la complicità e la speranza di migliorare il proprio futuro.


Il saluto degli amici prima della partenza

Quando e da dove sei partito? Cosa pensavi durante il viaggio?

Sono partito dall’aeroporto di Milano l’8 dicembre del 1959. L’aereo era un Douglas da guerra.
Il viaggio è durato circa 20 ore e durante la traversata dell’oceano pensavo e ripensavo a tutti i miei progetti e alle mie speranze di riuscire a migliorare il mio futuro.
Pensavo anche a tutte le difficoltà che avrei dovuto affrontare, come imparare una nuova lingua, stare attento ai pericoli e a non ammalarmi, non perdere lo spirito e la voglia di fare.

 Passaporto con permesso d’ingresso per gli Stati Uniti d’America

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