In edicola il n. 10 de L’Eco delle Dolomiti

di Marco Salvaterra

E’ uscito il 10º numero della rivista multilingue “L’Eco delle Dolomiti”
Se le Dolomiti sono state finalmente iscritte nell’elenco dell’Unesco quale Patrimonio dell’Umanita’, cio’ e’ stato anche grazie alla dimensione estetica di queste montagne. Il processo geomorfologico sbocca su un estetica propria, dolomitesca; conchiglie, coralli del mare si sono aggregati, fossilizzati, prima di emergere. Da questa materia friabile sono uscite un largo sventaglio di forme dai colori variegati e cambievoli, dandoci l’impressione di un processo di creazione sempre in corso: pareti bianche, guglie, torri, pinnacoli. La sorpresa è una parte centrale in questa estetica. Se ogni dolomite ha il suo proprio carattere, esse sono tuttavia unite da uno stesso movimento, quello profondo e sempre vivo del mare che le ha originate. Como afferma gia’ nel primo numero della rivista il pittore Matteo Boato esse sono una immagine viva della Genesi, tuttora visibile, sono un mare sempre in movimento: “mi piace pensare alle Dolomiti come a un vasto mare agitato, un rincorrersi di onde increspate, a volte aggressive a volte curiose, cariche di vita a regalare al mondo”

In quanto eco delle montagne la nostra rivista non intende parlare di una montagna statica, tradizionale, ossia “folklorica”, bensì di una montagna che incoraggia la creazione e ispira, con le sue forme cangianti, colori e ombre, in movimento. Giacché parlando di natura si parla altrettanto di cultura e di creazione.

Le Dolomiti, come tutte le montagne, non si riducono a una dimensione locale. Troppo sovente sinonimo di chiusura, la montagna può fungere come luogo d’apertura a scambi economici o culturali, in quanto posto di passaggio e di convivenza di varie lingue e tradizioni. Lingue italiche e germaniche s’incontrano proprio nelle Dolomiti, situazione molto originale rispecchiata nella scelta editoriale fatta da Mariapia Ciaghi di una rivista che incentivi il plurilinguismo sul territorio.

La montagna è una cassa di risonanza in cui ai nostri echi hanno risposto nuove voci venute da altre vallate: francesi, polacche, austriache, portoghesi, tedesche, spagnole, mettendo in evidenza che c’è un continuum di montagne che uniscono a loro modo il continente europeo.

Ognuna di queste voci arricchisce il fenomeno dell’eco, e l’eco procede, svegliando nuove voci, nuove lingue e modulazioni.

(Nicolas Boldych)

Dobbiamo cambiare la nostra vita. Cultura, formazione, paesaggio
La contingenza creatasi tra le scelte della Provincia Autonoma di Trento, Assessorato Urbanistica, Enti Locali e Personale che ha posto il paesaggio al centro della ridefinizione delle politiche territoriali e della governance, e l’accreditamento delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco, può essere l’occasione per sviluppare un laboratorio sperimentale in grado di verificare i vincoli e le possibilità nell’accettazione sociale di un’innovazione di ampia portata. Una simile innovazione ha i caratteri di un problema globale e controverso, quindi non lineare e perciò tale da non ammettere una sola soluzione. Essa si situa, inoltre, al punto di interconnessione tra processi socio-cognitivi, mentalità e ambiente, tra mindscape e landscape. La mia ipotesi è che esistano diverse velocità e durate e non poche contraddizioni intervenienti, tra gli atti anticipatori dell’amministrazione pubblica che fissa le regole, le mentalità e le culture che dovrebbero recepire quelle regole e i comportamenti effettivi degli individui e dei gruppi nelle reti delle relazioni sociali. Nelle dinamiche tra quelle differenze si genera di fatto l’evoluzione effettiva degli orientamenti e delle scelte e la possibilità stessa di produrre cambiamento orientato e innovazione. Non sarà possibile realizzare gli intenti riformisti senza porre mano alla comprensione prima e all’azione dopo, per favorire una inedita cultura del paesaggio.

“Da molto tempo si sa bene che l’uomo non comincia con la libertà ma con il limite e con la linea dell’invalicabile”, scrive Michel Foucault. È solo elaborando il limite che si para innanzi a noi, che ci riconosciamo. Così come è solo scoprendo il limite della nostra appartenenza naturale e tacita ad un contesto, sperimentando cioè distanza e mancanza, che creiamo l’artificiale del paesaggio, una simbolizzazione dell’ambiente “fatta ad arte”, come esito dell’elaborazione della distanza. Il tempo da quando sappiamo di iniziare con il limite, misurandoci con esso come con una sponda che ci rinvia un’immagine plausibile ancorché autogenerata di noi, evidentemente non è ancora bastato per accedere ad una visione e ad una cultura di noi stessi capace di generare comportamenti appropriati all’evidente insostenibilità del nostro modo di vivere e del nostro modello di sviluppo. Non ce l’abbiamo fatta finora a iniziare a comportarci in modo diverso. Che cosa deve succedere per accorgerci che non possiamo proseguire così e per iniziare effettivamente a comportarci diversamente? L’accettazione di idee discontinue sull’ambiente di vita e il paesaggio è resa urgente e necessaria dal cambiamento rapido dei contesti: quell’urgenza complica le cose all’inverosimile, in quanto l’ansia che genera pare non aiutare a cambiare idea. Basti per tutte le questioni la difficoltà a dare un significato positivo all’idea di limite. “Limite” rimane tuttora una parola “negativa” nel nostro linguaggio e richiama quello che non si può fare, una privazione, un handicap, un ostacolo alla libera scelta. Non ce la facciamo ancora ad affermare l’idea che non vi è alcuna possibilità senza limite. Non riconosciamo ancora le potenzialità generative che il limite contiene mentre definisce un effettivo spazio di azione: se la vita non fosse limitata non ci accorgeremmo della sua bellezza e vivere bene non vuol dire negare la finitudine della vita, cosa che condanna alla disperazione certa, ma abitare bene il tempo disponibile, sapendo che è limitato. La specie umana è di fronte ad una svolta: per la prima volta può definire il proprio spazio di vita e di azione, ma per farlo deve riconoscersi parte del tutto e riconoscere il limite come valore. Il paesaggio è una cartina di tornasole dei vincoli e delle possibilità di questa ri-figurazione.

Il paesaggio è la principale risorsa per la vivibilità del pianeta Terra da parte degli esseri umani e si colloca al punto d’incontro tra modelli mentali e comportamenti quotidiani. Il paesaggio non come stilema o cartolina ritagliata per scopi promozionali e commerciali ma come spazio di vita e come luogo della cultura, della distinzione, dell’applicazione di scelte oculate di governo, d’integrazione di qualità tra risorse ambientali e insediamenti umani. Per comprendere il paesaggio, punto di partenza di una riflessione adeguata deve essere ed è la domanda: che cosa intendiamo per vivibilità? Si tratta di un concetto che indica situazioni nuove con cui non abbiamo dimestichezza o ne abbiamo una superata. Noi tutti sappiamo che cosa significa affermare che una certa situazione è invivibile. Con quella espressione ci siamo riferiti nel tempo a diversi tipi di problemi in grado di rendere insopportabile una relazione, un ambiente, un’organizzazione. Oggi invivibile può significare irrespirabile, se ci riferiamo all’aria; nocivo o incommestibile o non potabile se parliamo di cibo e di acqua; inguardabile o inaccessibile se parliamo di paesaggio e territorio. La vivibilità riguarda perciò, sempre più, la nostra responsabilità relativa alle scelte che facciamo nel rapporto con l’ambiente in cui viviamo. Qui emergono alcuni importanti problemi, quasi tutti connessi alla nostra difficoltà a cambiare idea e, soprattutto, a cambiare comportamenti e stili di vita. Perché quei cambiamenti sono così urgenti e necessari? Lo sono perché la vivibilità è cambiata, e lo ha fatto in pochissimo tempo, il tempo di due o tre generazioni. Chi di noi ha più di cinquant’anni ricorderà che da piccoli non capitava mai di chiedersi: di che qualità è l’aria che respiro oggi? Oppure: ma l’acqua che sto bevendo contiene dei fattori nocivi? E cosa c’è nel cibo che sto mangiando? Di più era sempre meglio e tutto era stato creato per essere a nostra disposizione, in quanto esseri umani. Dagli scettici ai più sensibili, oggi, ognuno sa che quella vivibilità centrata sull’uso indiscriminato della natura non ha futuro. O vivremo con la natura e non contro di essa, o non vivremo affatto. Solo che accettare di far parte del tutto e, soprattutto, cambiare idea e comportamenti è molto difficile. I sentimenti che emergono richiamano subito la rinuncia, la perdita, la paura di tornare indietro, l’abbassamento del livello di quello che chiamiamo benessere. Poca attenzione rivolgiamo, di solito, ai vantaggi che possono derivarci dal riconoscere i limiti necessari di un certo modello di sviluppo. Si tratta di vantaggi che oggi sono effettivamente decisivi per la qualità della vita e per pensare a un futuro nostro e dei nostri figli. Quei vantaggi si possono ricondurre a tre parole chiave: conoscenza, paesaggio e tecnologie. Se si combinano in modo compatibile conoscenza, paesaggio e tecnologie avanzate, la vivibilità nei luoghi può divenire più elevata socialmente.

Il paesaggio è stato vissuto come un’esternalità, disponibile e attraente, da valorizzare per venderlo. Si tratta di riconoscere che è prima di tutto un patrimonio delle comunità residenti, dal punto di vista mentale, storico e culturale e, quindi, uno spazio di vita. Una risorsa unica e distintiva che eleva la qualità della vita e la rende attraente per chi ci nasce e chi la frequenta. Il paesaggio diviene in tal modo luogo dell’incontro, sede di una vivibilità distintiva e patrimonio inimitabile per il presente e il futuro.
(Intervento di Ugo Morelli, presidente della STEP, Convegno Paesaggi in rete, Per una vivibilita’ delle Dolomiti)

L’Eco delle Dolomiti rivista semestrale di Natura, Sport, Turismo e Cultura
ISSN: 1970-3104
Autorizzazione Tribunale di Trento n.1280 del 2 febbraio 2006

Direttore responsabile:
Mariapia Ciaghi
Editore – Il Sextante di Mariapia Ciaghi
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Eco delle Dolomiti – n. 10