Bruno Detassis in un ricordo di Giuseppe Ciaghi

di G. Ciaghi

Era di questi tempi, di mezza mattina. Vent’anni fa, a Campiglio, fuori dalla Famiglia cooperativa, in piazza Righi. Raffaele Vidi esce dal negozio con un panino imbottito in mano pronto ad andare ad annaffiarlo nel bar di fronte; vede me e il Bruno scambiarci il saluto lì nel parcheggio; si avvicina, ferma entrambi; afferra me per un braccio, indicandomi con l’altra, quella col panino in mano, il Detassis: “Vedi, Ràgol (mi chiamava così affettuosamente per l’origine di mia madre, che era di Ragoli), dì a quello lì, che non va mai in chiesa  (i Detassis vengono da una famiglia trentina di fede socialista, profondamente laici), che si metta finalmente a pregare. Per me!” Gliene chiedo la ragione, mentre il Bruno borbotta qualcosa e guarda il “Lele” incuriosito scuotendo la testa come avesse a che fare con un sempliciotto. “Sì caro Bruno, devi pregare la Madonna per me, che mi faccia vivere ancora a lungo – continua l’altro –  Ormai sono rimasto il più vecchio fra le guide (era del 1905). Morto io, toccherà a te portare il testimone!”.

Quell’estate Raffaele Vidi ci lasciò per sempre. Carattere estroverso, sempre allegro e pronto alla battuta, fortissimo in montagna, era l’opposto del suo amico Bruno, chiuso, metodico, tenace, di poche parole, e anche queste pesate.  Che lo ha raggiunto giovedì. Sicuramente in paradiso. Se c’è. A vent’anni di distanza. Rappresentanti di un’epoca, di un’epopea, di una moda che ha raccolto intorno alla montagna, alle Dolomiti, al Brenta per oltre un secolo i più bei nomi della nobiltà, della borghesia europea ed italiana insieme ai rampolli delle famiglie “bene” di Trento. 

Con la scomparsa del Bruno, del “grande vecchio”, del “patriarca”, del “re” del Brenta, come è stato definito dai media, si chiude per sempre una stagione irripetibile per l’alpinismo, un modo di affrontare la montagna in maniera quasi romantica e di viverla nei suoi valori più genuini. Che non lascia eredi, perché il mondo è cambiato.

Bruno Detassis